Sabato 8 gennaio 2022 alle 18:00 nello spazio espositivo di palazzo Moncada, sede della Galleria Civica di Caltanissetta, si è inaugurata La terra metafisica, personale di Attilio Scimone a cura di Andrea Guastella.
All’inaugurazione sono intervenuti il Sindaco di Caltanissetta Roberto Gambino, l’Assessore alla Cultura Marcella Natale, il curatore della mostra Andrea Guastella e il critico Dario Orphée La Mendola. Durante il vernissage è stato presentato il catalogo della mostra, Aurea Phoenix Edizioni, con testi di Alberto Giovanni Biuso, Andrea Guastella e Dario Orphée La Mendola.
“Che cos’è, per Attilio Scimone, una città? Che cos’è il paesaggio?”, si chiede l’Assessore alla Cultura Marcella Natale. “Sono”, risponde, “luoghi reali ed insieme metafisici, che ferma e ritrae nei suoi scatti con gli occhi pieni d’amore e di malinconia. Ogni fotografia di Attilio Scimone è unica ed irrepetibile, e nasce dall’incontro armonioso di Storia e Natura. Il paesaggio è ritratto come spazio infinito contiguo alla città, in immagini che si alternano come in un sogno, dal quale la città riceve un senso e un significato che la oltrepassa, che la colloca al centro di un orizzonte più vasto, potenzialmente illimitato. Attilio Scimone restituisce la Bellezza alla Città di Caltanissetta e ai suoi luoghi, e se ne riappropria in una visione totalizzante che rende ogni scatto un’opera d’arte. Il suo mondo è nello stesso tempo città e paesaggio, un mondo nel quale c’è un dialogo ininterrotto tra spazio urbano ed extra-urbano ‘la città nel paesaggio (la città che è nel paesaggio, in quanto spazio extracittadino, ma non si oppone ad esso, non lo nega) attesta, allora, e quasi sancisce, l’infinito del paesaggio: il quale a sua volta è l’infinito della città, nella quale esso non finisce’ (Rosario Assunto)”.
Dal testo in catalogo di Andrea Guastella: “Caltanissetta io l’ho sempre vista sui cartelli stradali, andando da Ragusa a Palermo. A volte l’ho sfiorata, per una delle tante deviazioni che la manutenzione viaria rende necessarie.
Sarà stato per il suo nome da castello arabo, ma l’ho sempre pensata come un mitico avamposto: il confine di cui tutti parlano ma che non si raggiunge mai. Un confine tra reale e immaginario, tra la Sicilia del mare, luminosa e vitale, e un deserto di zolfo che sprofonda all’interno in anfratti e insenature.
I declivi rocciosi poco prima dell’imbocco della Caltanissetta Gela nella Palermo Catania, mi hanno sempre parlato di epoche geologiche remote. E lungo e accidentato è, oggi come in passato, il viaggio da e verso questi luoghi.
Un viaggio dello sguardo, costretto gradualmente ad adattarsi a una diversa luce. Se lungo il mare le tinte sono nette e brillanti, qui contano mezzi toni e sfumature. È come se, da un cortile all’aria aperta, si accedesse in un interno. Il quale però non ha niente di chiuso, di ristretto: è sconfinato.
La metafisica, l’idea stessa che il vero si celi dietro sensibili apparenze, frequentando posti simili è del tutto naturale. Perciò non mi sorprendono, nella fotografia di Attilio Scimone, che ad essi ha dedicato uno studio lungo quasi cinquant’anni, le prospettive multicentriche, con punti di fuga non sovrapponibili, incongruenti, che inducono l’occhio a cercare costantemente un ordine nella disposizione delle immagini; la scarsezza di figure umane che, quando ci sono, si mostrano dure, astratte come statue, o disincarnate come spiriti evocati in un racconto attorno a un fuoco; la pressoché assoluta noncuranza per le ombre, il cui posto è preso da graffi, macchie, sovrapposizioni, che bruciano gli argenti degli sfondi; l’insistenza di scene che, anche quando riguardano le città della Sicilia, si svolgono in un altrove imprecisato.
Nessuno degli ingredienti della pittura metafisica manca all’appello. E in effetti con la pittura l’arte di Attilio, almeno quella selezionata per questa esposizione, ha tantissimo in comune. Non, s’intende, per quanto concerne la scelta dei soggetti: lontanissimi dal pittoricismo di maniera – una sorta di neo romanticismo piagnone – di tanta fotografia siciliana, alla lunga insopportabile.
Ad apparentare queste foto alla pittura, o meglio ancora all’incisione, è l’origine, la genesi in vitro, per cui non conta l’attimo, il momento decisivo, ma il lento fermentare delle immagini, il loro modificarsi in sede di sviluppo sino a rivelare parentele insospettabili tra un palo della luce colto di sghembo e dei cristalli di ghiaccio – ammesso e non concesso che le linee filiformi che si stagliano come su un parabrezza bagnato in una delle prime foto, coincidano davvero con oggetti reali.
La nostra mente per comodità le associa a ciò che già conosce, ma in un contesto simile non può fare a meno di chiedersi se esse non rimandino anche a qualcosa di nuovo, di diverso”.